La libertà degli antichi paragonata a quella dei moderni

Ho tradotto, da una versione inglese, il testo di Benjamim Constant sia perché è un testo interessante, anche se non sempre condivisibile quando parla di Roma, sia perché tenersi in allenamento con le traduzioni è sempre divertente. Lo trovo interessante soprattutto per il suo modo di ragionare, radicato nella storia, che rivela spunti utili, come l’invenzione della vita privata, e cerca di scoprire le motivazioni per cui un sistema possa divenire inadatto o persino dannoso con il passare del tempo. Vista anche l’attuale crisi della democrazia europea può anche essere d’ispirazione.
 


Signori,

vorrei sottoporre alla vostra attenzione alcune distinzioni, ancora piuttosto nuove, tra due tipi di libertà: queste differenza sono finora rimaste inosservate, od almeno non sufficientemente rimarcate. La prima è la libertà il cui esercizio era così caro agli antichi popoli; la seconda quella il cui godimento è particolarmente prezioso per le nazioni moderne. Se io sono nel giusto, questa investigazione si rivelerà interessante da due differenti angolazioni.

Innanzitutto, la confusione di questi due tipi di libertà è stata tra di noi, nei giorni troppo famosi della nostra Rivoluzione, la causa di molte malvagità. La Francia è stata esaurita dagli esperimenti inutili, i cui autori, irritati dal loro povero successo, cercarono di forzarla a godere il bene che essa non voleva, e le negarono il bene che voleva. Secondariamente, chiamati come noi siamo dalla nostra felice rivoluzione (la chiamo felice, nonostante i suoi eccessi, perché concentro la mia attenzione sui suoi risultati) a godere i benefici del governo rappresentativo, è curioso ed interessante scoprire perché questa forma di governo, l’unica al riparo della quale noi possiamo trovare qualche libertà e pace oggi, era totalmente sconosciuta alle nazioni libere dell’antichità.

So che ci sono scrittori che hanno preteso di riconoscere tracce di essa tra alcuni popoli antichi, nella repubblica Lacedemone [1. Sparta] per esempio, o tra i nostri antenati i Galli; ma essi si sono sbagliati. Il governo Lacedemone era un’aristocrazia monastica [2. una sorta di ierocrazia, governo del clero], ed in alcun modo un governo rappresentativo. Il potere dei re era limitato, ma era limitato dagli efori, e non da uomini investiti di una missione simile a quella che le elezioni conferiscono oggi ai difensori delle nostri libertà. Gli efori, senza dubbio, sebbene originariamente creati dai re, erano eletti dal popolo. Ma ve ne erano solo cinque di loro. La loro autorità era tanto religiosa quanto politica; essi addirittura condividevano l’amministrazione del governo, cioè, il potere esecutivo. Tali erano le loro prerogative, come quelle di quasi tutti i magistrati popolari nelle repubbliche antiche, lungi dall’essere semplicemente una barriera contro la tirannia talvolta essi stessi divenivano una tirannia insopportabile.

Il regime dei Galli, che assomigliava proprio a quello che un certo partito vorrebbe ripristinare per noi, era allo stesso tempo teocratico e guerriero. I sacerdoti godevano di potere illimitato. La classe militare o nobilità aveva privilegi oppressivi e marcatamente sfacciati; le persone non avevano diritti o salvaguardie.

A Roma i tribuni avevano, fino ad un certo punto, una missione rappresentativa. Essi erano gli organi di quei plebei cui l’oligarchia – la quale è la stessa in tutte le età – aveva sottomesso, nel rovesciare i re, ad una così dura schiavitù. Il popolo, comunque, esercitava una larga parte dei diritti politici direttamente. Essi si incontravano per votare le leggi e giudicare i patrizi contro i quali erano state mosse delle accuse: dunque vi erano, a Roma, solo flebili tracce di un sistema rappresentativo.

Questo sistema è una scoperta dei moderni, e vedrete, Signori, che la condizione del genere umano nell’antiquità non permise l’introduzione o la fondazione di un’istituzione di questa natura. Gli antichi popoli non potevano né sentirne il bisogno, né apprezzarne i vantaggi. La loro organizzazione sociale li portava a desiderare una libertà del tutto differente da quella che questo sistema garantisce a noi. L’intervento di questa notte sarà interamente dedicato a dimostrarvi questa verità.

Innanzitutto chiedete a voi stessi, signori, che cosa un inglese, un francese ed un cittadino degli Stati Uniti intendono oggi con la parola libertà. Per ognuno di loro è il diritto di essere soggetti solamente alle leggi, e non essere arrestato, detenuto, messo a morte o maltrattato in qualsiasi modo da una volontà arbitraria di uno o più individui. É il diritto di ognuno di esprimere la propria opinione, scegliere una professione e praticarla, di disporre della proprietà, e anche di abusarne; di andare e venire senza permesso, e senza dover dare spiegazioni riguardo le sue intenzioni od imprese. É il diritto di ognuno di associarsi con altri individui, o per discutere i suoi interessi, o per professare la religione che egli ed i suoi associati preferiscono, ed anche semplicemente per occupare i propri giorni od ore nel modo che è più consono alle sue inclinazioni o capricci. Infine è il diritto di oguno di esercitare qualche influenza sull’amministrazione del governo, o eleggendo tutti od alcuni ufficiali, oppure attraverso rappresentanze, petizioni, richieste alle quali le autorità sono più o meno tenute a dar retta. Ora confrontate questa libertà con quella degli antichi.

Quest’ultima consisteva nell’esercitare collettivamente, ma direttamente, diverse parti della completa sovranità; nel deliberare, nella pubblica piazza, circa la guerra e la pace; nel formare alleanze con governi stranieri; nel votare leggi, nel pronunciare giudizi; nell’esaminare i resoconti, gli atti, l’amministrazione dei magistrati [3. intesi come funzionari]; nel chiamarli ad apparire di fronte alle persone riunite, nell’accusarli, condannarli od assorverli. Ma se questo era ciò che gli antichi chiamavano libertà, essi ammettevano come compatibile con questa libertà collettiva la completa sottomissione dell’individuo all’autorità della comunità. Non si può trovare tra di loro quasi nessuno dei piaceri che abbiamo visto come parte della libertà dei moderni. Tutte le azioni private erano sottoposte ad una forte sorveglianza. Nessuna importanza era data all’indipendenza individuale, né in relazione alle opinioni, né al lavoro, né, sopratutto, alla religione. Il diritto di scegliere la propria affiliazione religiosa, un diritto che noi consideriamo come uno dei più preziosi, sarebbe sembrato agli antichi un crimine ed un sacrilegio. Nel dominio che sembra a noi il più utile, l’autorità del corpo sociale interponeva sé stessa ed ostruiva la volontà degli individui. Tra gli Spartani, Terpandro non poté aggiungere una riga alla sua lirica senza causare offesa agli efori. Nelle più domestiche delle relazioni la pubblica autorità interveniva nuovamente. Il giovane lacedemone non poteva visitare la sua nuova moglie liberamente. A Roma, i censori gettavano un occhio indagatore sulla vita familiare. Le leggi regolavano i customi e, dato che i costumi toccavano ogni cosa, vi era a stento qualcosa che le leggi non regolavano.

Così tra gli antichi l’individuo, quasi sempre sovrano nei pubblici affari, era uno schiavo nelle sue relazioni private. Come cittadino, egli decideva sulla pace e sulla guerra; come individuo privato, egli era costretto, guardato e represso in tutti i suoi movimenti; come un membro del corpo collettivo, egli interrogava, respingeva, condannava, riduceva in miseria, esiliava o sentenziava a morte i suoi magistrati e superiori; come un soggetto del corpo collettivo egli stesso poteva essere privato del suo stato, spogliato dei suoi privilegi, bandito, messo a morte, dalla volontà discrezionale dell’intero a qui egli apparteneva. Tra i moderni, al contrario, l’individuo, indipendente nella sua vita privata, e, anche nel più libero degli stati, sovrano solo in apparenza. La sua sovranità è ristretta e quasu sempre sospesa. Se, a fissi e rari intervalli, nei quali egli è ancora circondato da precauzioni ed ostacoli, egli esercita questa sovranità, è sempre unicamente per rinunciarvi[4. vale a dire per eleggere un rappresentante].

Io devo a questo punto, Signori, fermarmi un momento per anticipare un’obiezione che potrebbe essermi rivolta. C’era nell’antichità una repubblica dove la schiavitù dell’esistenza individuale al corpo collettivo non era completa come quella che ho descritto. Questa repubblica era la più famosa di tutte: intuirete che sto parlando di Atene. Vi ritornerò più tardi, a nel sottoscrivere la verità di questo fatto, io ne indicherò anche la sua causa. Vedremo perché, di tutti gli stati antichi, Atene era quello che più assomigliava a quelli moderni. In tutti gli altri la giurisdizione sociale era illimitata. Gli antichi, come dice Condorcet, non avevano nozione di diritti individuali. Gli uomini erano, per così dire, meramente macchine, i cui ingranaggi e ruote dentate erano regolati dalla legge. La stessa soggezione caratterizzava i secoli d’oro della Repubblica Romana; l’individuo era in qualche modo perso nella nazione, il cittadino nella città. Noi rintracceremo questa essenziale differenza tra gli antichi e noi stessi fino alla sua fonte.

Tutte le antiche repubbliche erano ristrette ad un piccolo territorio. Il più popoloso, il più potente, il più sostanziale tra di loro, non era uguale in estensione al più piccolo degli stati moderni. Come conseguenza inevitabile del loro piccolo territorio, lo spirito di queste repubblice era bellicoso; ogni popolo incessantemente attaccava i suoi vicini od era attaccato da loro. Così condotti dalla necessità l’uno contro l’altro, essi si combattevano o si minacciavano l’un l’altro costantentemente. Quelli che non avevano ambizione di essere conquistatori, non potevano comunque posare le loro armi, per paura di poter essere conquistati. Tutti avevano da comprare la propria sicurezza, la propria indipendenza, la propria intera esistenza al prezzo della guerra. Questo era il costante interesse, l’occupazione quasi abituale degli stati liberi dell’antichità. Alla fine, quale un egualmente necessario risultato di questo modo di essere, tutti questi stati avevano schiavi. Le professioni meccaniche e persino, tra alcuni nazioni, quelle industriali, era legate a persone in catene.

Il mondo moderno ci offre una visione completamente opposta. I più piccoli stati dei nostri giorni sono incomparabilmente più grandi di quanto Sparta o Roma[5. questo è chiaramente un errore] fossero durante cinque secoli. Perfino la divisioni dell’Europa in parecchi stati è, grazie al progresso dell’illuminismo, più apparente che reale. Mentre ogni popolo, nel passato, formava una famiglia isolata, nato nemico di altre famiglie, una massa di esseri umani ora esiste, che, sotto nomi differenti e sotto forme differenti di organizzazione sociale, sono essenzialmente omogenei nella loro natura. Questa massa è abbastanza forte da non avere niente da temere dalle orde barbare. É sufficientemente civilizzata da trovare la guerra un peso. La sua tendenza uniforme è verso la pace.

Questa differenza porta ad un’altra. La guerra precede il commercio. Guerra e commercio sono solo due mezzi differenti per ottenere lo stesso fine, che è quello di ottenere ciò che si vuole. Il commercio è semplicemente il tributo pagato alla forza del possessore dall’aspirante al possesso. É un tentativo di conquistare, tramite un mutuo accordo, ciò che si non può più sperare di ottenere attraverso la violenza. Un uomo che fosse stato sempre il più forte non potrebbe mai concepire l’idea del commercio. É l’esperienza, provando a lui che la guerra, cioè l’uso della sua forza contro la forza degli altri, lo espone ad una varietà di ostacoli e sconfitte, che lo conducono a ricorrere al commercio, che è un più mite e sicuro mezzo per impegnare l’interesse degli altri ad accettare ciò che si adatta al suo. La guerra è tutto impulso, il commercio, calcolo. Da ciò consegue che un’era deve arrivare nella quale il commercio rimpiazza la guerra. Noi abbiamo raggiunto questa era.

Non intendo dire che tra gli antichi non vi fossero popoli commercianti. Ma questi popoli erano per certi versi un’eccezione alla regola generale. I limiti di questo intervento non mi permettono di illustrare tutti gli ostacoli i quali si opponevano allora al progresso del commercio; voi li conoscete bene quanto me; Ne menzionerò solamente uno di loro.

La loro ignoranza della bussola significava che i marinai dell’antichità dovevano sempre tenersi vicini alla costa. Passare attraverso le Colonne di Ercole, cioè, lo stretto di Gibilterra, era considerata la più audace delle imprese. I fenici ed i cartaginesi, i più abili dei navigatori, non la rischiarono fino a molto tardi, ed il loro esempio rimase a lungo senza imitatori. In Atene, di cui parleremo presto, l’interesse in imprese marittime era circa il 60%, mentre l’interesse ordinario era solamente il 12%: ecco come sembrava pericolosa l’idea della navigazione per lunghe distanze.

Inoltre, se potessi permettermi una digressione che sfortunatamente si proverebbe troppo lunga, vi mostrerei, Signori, attraverso i dettagli dei customi, abitudini, modi di commerciare con altri dei popoli commercianti dell’antichità, che il loro stesso commercio era impregnato dello spirito del tempo, dall’atmosfera di guerra ed ostilità che lo circondava. Il commercio era allora uno sfortunato accidente, oggi è il normale stato delle cose, il solo scopo, la tendenza universale, la vera vita delle nazioni. Esse vogliono pace, e con la pace conforto, a come sorgente di conforto, industria. Ogni giorno la guerra diviene un più inefficace mezzo per soddisfare i loro desideri. I suoi azzardi non offrono più agli individui benefici che corrispondono ai risultati del lavoro pacifico e degli scambi regolari.

Fra gli antichi, una guerra vittoriosa incrementava sia la ricchezza pubblica che privata con schiavi, tributi e terre ripartite. Per i moderni, anche una guerra vinta costa infallibilmente più di quel che vale. Infine, grazie al commercio, alla religione, al progresso morale ed intellettuale della razza umana, non ci sono più schiavi tra le nazioni europee. Liberi uomini deveno esercitare tutte le professioni, provvedere per tutte le necessità della società.

É facile vedere, Signori, l’inevitabile risultato di queste differenze. Innanzitutto, la dimensione di uno stato causa una corrispondente diminuzione dell’importanza concessa ad ogni individuo. Il più oscuro repubblicano di Sparta o Roma aveva potere. Lo stesso non è vero per i semplice cittadini della Gran Bretagna o degli Stati Uniti. La sua personale influenza è una parte impercettibile della volontà sociale che imprime al governo la sua direzione.

In secondo luogo, l’abolizione della schiavitù ha privato la popolazione libera di tutto l’agio risultante dal fatto che gli schiavi si prendessero cura della maggior parte degli obblighi. Senza la popolazione di schiavi di Atene, 20.000 Ateniesi non avrebbero mai potuto spendere in discussioni ogni giorno alla piazza pubblica. Terzo, il commercio non lascia, come la guerra, intervalli di inattività nelle vite degli uomini. Il costante esercizio di diritti politici, le discussioni giornaliere degli affari di stato, i disaccordi, le confabulazioni, l’intero seguito e movimento delle fazioni, le necessarie agitazioni, l’obbligatorio riempimento, se posso usare questo termine, della vita delle persone dell’antichità, che, senza questa risorse avrebbero languito sotto il peso di una dolente inazione, causerebbe solo problemi e fatica alle moderne nazioni, dove ogni individuo, occupato con le speculazioni, le sue imprese, i piaceri che ottiene o per cui spera, non vuole essere distratto da loro se non momentaneamente, e per il minor tempo che sia possibile.

Infine, il commercio ispira negli uomini un vivo amore dell’indipendenza individuale. Il commercio provvede i suoi bisogni, soddisfa i suoi desideri, senza l’intervento dell’autorità. Questo intervento è quasi sempre – e non so perché io dica quasi – questo intervento è certamentente sempre un problema ed un imbarazzo. Ogni volta che il potere collettivo vuole intromettersi nelle speculazioni private, infastidisce gli speculatori. Ogni volta che il governo finge di fare il nostro interesse, lo fa più incompetentemente e costosamente di quello che vorremmo.

Ho detto, Signori, che sarei ritornato ad Atene, il cui esempio potrebbe essere opposto ad alcune delle mie asserzioni, ma che infatti le confermerà tutte. Atene, come ho già fatto notare, era fra tutte le repubbliche greche la più strettamente impegnata nel commercio, così permetteva ai suoi cittadini un libertà individuale infinitamente più grande che Sparta o Roma. Se io potessi entrare nei dettagli storici, vi mostrerei che, tra gli ateniesi, il commercio aveva rimosso parecchie delle differenze che distinguevano i popoli antichi da quelli moderni. Lo spirito dei mercanti ateniesi era simile a quello dei mercanti dei nostri giorni. Senofonte ci dice che durante la Guerra del Peloponneso, essi mossero i loro capitali dal continente di Attica per metterli sulle isole dell’arcipelago. Il commercio aveva creato tra di loro la circolazione del denaro. In Isocrate v’erano segni che le banconote di scambio venissero usate. Osservato come i loro costumi assomigliano ai nostri. Nelle loro relazioni con le donne, vedete, ancora cito Senofonte, che i mariti, soddisfatti quando la pace ed una decorosa amicizia regnava nelle loro famiglie, facevano concessioni per la moglie che era troppo vulnerabile di fronte alla tirannia della natura, chiudevano i loro occhi all’irresistibile potere delle passioni, perdonavano la prima debolezza e dimenticavano la seconda. Nelle loro relazioni con gli stranieri, vedete loro estendere i diritti della cittadinanza a chiunque, spostandosi tra di loro con la sua famiglia, stabilisse qualche commercio o industria.

Infine, dovremmo essere colpiti dal loro amore eccessivo per l’indipedenza individuale. In Sparta, dice un filosofo, i cittadini accelerano il loro passo quanto sono chiamati da un magistrato; ma un ateniese sarebbe disperato se si pensasse che dipendesse da un magistrato. Tuttavia, diverse altre circostanza che determinavano il carattere delle antiche nazioni esistevano in Atene allo stesso modo; come altrove vi era una popolazione di schiavi ed il territorio era molto ristretto; noi troviamo anche qui tracce di libertà proprie degli antichi. Le persone facevano le leggi, esaminavano il comportamento dei magistrati, chiamarono Pericle a rendere conto della sua condotta, sentenziarono a morte i generali che avevano comandanto la Battaglia delle Arginuse. Similmente l’ostracismo, quell’arbitrarietà legale, era celebrata da tutti i legislatori dell’epoca; l’ostracismo, che appare a noi, e giustamente, un’ingiustizia rivoltante, prova che l’individuo era molto più subordinato alla supremazia del corpo sociale in Atene, di quello che egli sia in ognuno degli stati liberi dell’Europa di oggi.

Segue da ciò che ho appena indicato che noi non possiamo più godere della libertà degli antichi, la quale consisteva in un’attiva e costante partecipazione al potere collettivo. La nostra libertà deve consistere nel pacifico godimento e nella privata indipendenza. La partecipazione che nell’antichità ognuno aveva nella sovranità nazionale non era affatto un’astratta ipotesi come è ai giorni nostri. La volontà di ogni individuo aveva reale influenza: l’esercizio di questa volontà era un vivido e ripetuto piacere. Di conseguenza gli antichi erano pronti a fare molti sacrifici per preservare i loro diritti politici e la loro partecipaione all’amministrazione dello stato. Ognuno, sentendo con orgoglio ciò che il proprio suffragio valeva, trovava in questa coscienza della sua personale importanza una grande compensazione.

Questa compensazione non esiste più per noi oggi. Perso nella moltitudine, l’individuo non può quasi mai percepire l’influenza che esercita. L’esercizio dei diritti politici, quindi, ci offre solo una parte dei piaceri che gli antichi trovavano in essa, mentre allo stesso tempo il progresso della civilizzazione, la tendenza commerciale dell’era, la comunicazione tra le persone, hanno infinitamente moltiplicato e variato i mezzi di felicità personale.

Da ciò segue che noi dobbiamo essere molto più attaccati degli antichi alla nostra indipendenza individuale. Per gli antichi, quando essi sacrificavano l’indipendenza per i diritti politici, sacrificavano poco per ottenere molto; mentre nel fare lo stesso sacrificio noi daremmo molto per ottenere poco. Lo scopo degli antichi era la condivisione del potere sociale tra i cittadini della stessa madrepatria: questo è ciò che essi chiamavano libertà. L’obiettivo dei moderni è il godimento della sicurezza in piaceri privati; ed essi chiamano libertà la garanzia accordata dalle istituzioni a questi piaceri.

Dissi all’inizio che, attraverso il fallimento a cogliere queste differenze, uomini altrimenti ben intenzionati uomini casuarono infiniti mali duranta la nostra lunga e tempestosa rivoluzione. Dio non voglia che io li rimproveri troppo duramente. Il loro errore stesso era scusabile. Non si poteva leggere le belle pagine dell’antichità, non si poteva richiamare le azioni dei suoi grandi uomini, senza sentire un’indefinibile e speciale emozione, che nulla di moderno può assolutamente suscitare. I vecchi elementi di una natura antecedente, per così dire, alla nostra, sembrano risvegliare in noi queste memorie. É difficile non rimpiangere il tempo quando le facoltà dell’uomo si sviluppavano lungo un percorso già battuto, ma in una così vasta carreggiata, così forti nei loro poteri, con un tale sentimento di energia e dignità. Una volta che ci abbandoniamo a questo rimpianto, è impossibile non voler imitare ciò che rimpiangiamo. Questa impressione era molto profonda, specialmente quando vivevamo sotto governi crudeli, i quali, senza essere forti, era repressivi nei loro effetti; assurdi nei loro principi; abbietti in azione; governi che avevano come loro cardine il potere arbitrario; come loro scopo lo sminuimento dell’umanità; e che taluni individui ancora osano elogiare a noi oggi, come se potessimo mai dimenticare che siamo stati testimoni e vittime della loro ostinazione, della loro impotenza e del loro rovesciamento. L’obiettivo dei nostri riformatori era nobile e generoso. Chi fra noi non sentì il suo cuore battere con speranza all’inizio del corso che essi sembravano aprire ? E vergogna, persino oggi, su chiunque non senta la necessità di dichiarare che il riconoscimento di pochi errori commessi dalle nostre prime guide, non significa rovinare la loro memoria o rinnegare le opinioni che gli amici dell’umanità hanno professato attraverso i secoli.

Ma quegli uomini avevano derivato diverse delle loro teorie dai lavori di due filosofi che avevano essi stessi fallito nel riconoscere i cambiamenti portati da duemila anni nelle disposizioni dell’umanità. Io dovrei forse esaminare in qualche punto il sistema del più illustre di questi filosofi, di Jean-Jacques Rosseau, e dovrei dimostrare che, trasponendo nella nostra era moderna un’entità di potere sociale, di sovranità collettiva, la quale apparteneva ad altri secoli, questo sublime genio, animato dal più puro amore della libertà, ha nondimeno fornito mortali pretesti per più di un genere di tirannia. Senza dubbio, nel far notare ciò che io ritengo un’incomprensione che è importante rivelare, dovrà essere attento nella mia refutazione, e rispettoso nel mio criticismo. Dovrò certamente astenermi dall’unirmi io stesso ai detrattori di un grande uomo. Quando il caso fa sì che io trovi me stesso apparentemente in accordo con essi su qualche punto particolare, io sospetterò me stesso; e per consolare me stesso, per apparire per un momento in accordo con loro su di una singola parziale questione, io devo rinnegare e denunciare con tutte le mie energie questi pretesi alleati.

Nondimeno, gli interessi della verità devono prevalere sopra le considerazioni che fanno la gloria di un prodigioso talento e l’autorità di una immensa reputazione così potente. Oltretutto, come vedremo, non è a Rousseau che noi dobbiamo principalmente attribuire l’errore contro il quale andrò ad argomentare; questo deve essere imputato molto di più ad uno dei suoi successori, meno eloquente, ma non meno austero e mille volte più esagerato. Quest’ultimo, l’Abate di Mably, può essere considerato come il rappresentante del sistema il quale, in accordo con le massime della libertà antica, esigeva che i cittadini dovessero essere interamente sottomessi affinché la nazione fosse sovrana, e che l’individuo dovesse essere schiavo perché il popolo fosse libero.

L’Abate di Mably, come Rousseau e molti altri, fraintese, esattamente come fecero gli antichi, l’autorità del corpo sociale per la libertà; e a lui ogni mezzo sembrò buono se estendeva la sua area di autorità sopra quella recalcitrante parte dell’umana esistenza la cui indipendenza egli deplorava. Il rammarico che egli esprime ovunque nei suoi lavori è che la legge può solamente coprire le azioni. Egli avrebbe voluto che essa coprisse i più fugaci pensieri ed impressioni; per inseguire inesorabilmente l’uomo, non lasciandogli alcun rifugio nel quale potesse scappare dal suo potere. Non appena egli apprendeva, non importa tra quale popolo, di qualche misura oppressiva, egli pensava di aver fatto una scoperta e la proponeva come un modello. Egli detestava la libertà individuale come un nemico personale; ed ogni qual volta nella storia in cui si imbatteva in una nazione totalmente priva di essa, persino se essa non aveva libertà politica, egli non poteva evitare di ammirarla. Egli andò in estasi per gli Egizi, perché, come egli disse, tra di loro ogni cosa era prescritta dalla legge, fino ai rilassamenti ed ai bisogni: ogni cosa era soggetta all’imperio del legislatore. Ogni momento del giorno era riempito di qualche dovere; l’amore stesso era oggetto di questo rispettato intervento, ed era la legge che a turno apriva e chiudeva le tende del letto nuziale.

Sparta, che combinava forme repubblicane con la stessa schiavitù degli individui, suscitò nello spirito di quel filosofo un ancor più vivido entusiasmo. Quelle vaste caserme monastiche a lui sembravano l’ideale di una perfetta repubblica. Egli aveva un profondo disprezzo per Atene, ed avrebbe felicemente detto di questa nazione, la prima della Grecia, ciò che un accademico e grande nobile disse dell’Accademia Francese: «che sconvolgente dispotismo ! Chiunque fa ciò che gli pare lì». Io devo aggiungere che questo grande nobile stava parlando dell’Accademia com’era trent’anni fa.

Montesquieu, che aveva una mente meno eccitabile e quindi più attenta, non cadde infatti negli stessi errori. Egli fu colpito dalle differenze di cui vi ho riferito; ma egli non scoprì la loro vera causa. I politici greci che vissero sotto il governo popolare non riconoscevano, egli argomenta, ogni altro potere se non la virtù. I politici di oggi parlano solamente di manufatture, di commercio, di finance, di ricchezza e persino di lusso. Egli attribuisce questa differenza alla repubblica ed alla monarchia. Dovrebbe invece essere attribuita all’opposto spirito dei tempi antichi e moderni. I cittadini delle repubbliche, i sudditi delle monarchie, tutti vogliono i piaceri, e senza dubbio nessuno, nella condizione presente delle società può evitare di volerli. Il popolo più attaccato alla libertà nei nostri giorni, prima dell’emancipazione della Francia, era anche il più attaccato ai piaceri della vita; ed esso valorizzava la sua libertà specialmente perché esso vedeva in ciò la garanzia dei piaceri che amava. Nel passato, dove vi era libertà, il popolo poteva sopportare le avversità. Ora, ovunque vi siano avversità, la schiavitù è necessaria perché il popolo si arrenda ad esse. Sarebbe più semplice oggi fare spartani di un popolo schiavo che trasformare uomini liberi in spartani.

Gli uomini che furono portati dagli eventi alla testa della nostra rivoluzione erano, come necessaria conseguenza dell’educazione che avevano ricevuto, immersi in visioni antiche che non erano più valide, che i filosofi che ho menzionato avevano portato in auge. La metafisica di Rousseau, nel mezzo della quale illuminava l’occasionale pensiero sublime e passaggi di entusiasmante eloquenza; l’austerità di Mably, la sua intolleranza, il suo odio di tutte le passioni umane, la sua foga di asservirle tutte, i suoi esagerati principi sulla competenza della legge, la differenza tra ciò che egli raccomandava e ciò che era precendentemente esistito, le sue declamazioni contro la ricchezza e persino contro la proprietà; tutte queste cose erano destinate ad incantare uomini infuocati dalla loro recente vittoria, e che, avendo vinto il potere sopra la legge, erano fin troppo disposti ad estendere il potere su tutte le cose. Era per loro un’autorità preziosa quella di due scrittori che, disinteressati alla questione e lancianti anatemi contro il dispotismo degli uomini, avessero scritto in assiomi il testo della legge. Essi volevano esercitare il potere pubblico come avevano imparato dalle loro guide come esso fosse stato esercitato negli stati liberi. Essi credevano che tutto dovesse cedere di fronte alla volontà collettiva, e che tutte le restrizioni sui diritti individuali sarebbero stati ampiamente compensati dalla partecipazione al potere sociale.

Sappiamo tutti, Signori, quale è stato il risultato. Libere istituzioni, poggiantesi sopra la conoscenza dello spirito del tempo, avrebbero potuto sopravvivere. L’edificio ristorato degli antichi collassò, nonostante molti sforzi e molti atti eroici che richiamano la nostra ammirazione. Il fatto è che il potere sociale feriva in tutti i sensi l’indipendenza individuale, senza distruggerne il bisogno. La nazione non trovava che una ideale condivisione di una sovranità astratta valesse i sacrifici richiesti per essa. Essa era vanamenta assicurata, sull’autorità di Rousseau, che le leggi della libertà erano mille volte più austere del giogo dei tiranni. Essa non aveva desiderio di queste austere leggi, e credeva qualche volta che il giogo dei tiranni sarebbe stato preferibile ad esse. L’esperienza è venuta a disilluderla. Essa ha visto che il potere arbitrario degli uomini era persino peggio della peggiore delle leggi. Ma anche le leggi dovevano avere i loro limiti.

Se ho avuto successo, Signori, nel farvi condividere la convinzione che, secondo la mia opinione, questi fatti devono produrre, riconoscerete con me la verità dei seguenti principi. L’indipendenza individuale è il primo bisogno dei moderni: di conseguenza non si deve mai richiederne da loro il sacrificio per stabilire la libertà politica. Ne segue che nessuna delle numerose e troppo elogiate istituzioni, che nelle antiche repubbliche limitavano la libertà individuale, sia più ammissibile nei tempi moderni.

Voi potreste, in primo luogo pensare, Signori, che è superfluo stabilire questa verità. Diversi governi dei nostri giorni non sembrano per nulla inclinati ad imitare le repubbliche dell’antichità. Tuttavia, per quanto poco possano apprezzare le istituzioni repubblicane, ci sono certi usi repubblicani per i quali essi sentono una certa affinità. É allarmante che esse siano precisamente quelle che permettono loro di bandire, esiliare, o spogliare. Ricordo che nel 1802 essi infilarono, nella legge sui tribunali speciali, un articolo che introduceva in Francia l’ostracismo greco; e Dio sa quanti eloquenti oratori, in modo da ottenre l’approvazione di questo articolo, ci parlavano della libertà di Atene e di tutti i sacrifici che gli individui devono fare per preservare questa libertà ! Allo stesso modo, in tempi molto più recenti, quando autorità timorose tentarono, con timida mano, di dirigere le elezioni a loro vantaggio, un giornale che non si può sospettare di repubblicanismo propose di risuscitare la censura romana per eliminare tutti i candidati pericolosi.

Io non penso, pertanto, che mi stia impegnando in una discussione inutile se, per sostenere la mia affermazione, pronuncio alcune parole circa queste due istituzioni troppo celebrate. L’ostracismo in Atene si poggiava sul presupposto che la società avesse l’autorità completa sui suoi membri. Su questo presupposto poteva essere giustificato; e in un piccolo stato, dove l’influenza del singolo individuo, forte nel suo credito, i suoi clienti, la sua gloria, spesso bilanciava il potere della massa, l’ostracismo poteva apparire utile. Ma tra noi gli individui hanno diritti che la società deve rispettare, e gli interessi individuali sono, come ho già osservato, talmente persi nella moltitudine di eguali o superiori influenze, che ogni oppressione motivata dal bisogno di diminuire questa influenza è inutile e di conseguenza ingiusta. Nessuno ha il diritto di esiliare un cittadino, se egli non è condannato da un regolare tribunale, in accordo ad una legge formale a cui consegue la pena dell’esilio per l’azione della quale è colpevole. Nessuno ha il diritto di strappare il cittadino dal suo Paese, il proprietario dalle sue proprietà, il mercante dal suo commercio, l’anziano uomo dal suo abituale stile di vita. Ogni esilio politico è un abuso politico. Ogni esilio pronunciato da una assemblea per supposte ragioni di sicurezza pubblica è un crimine che l’assemblea stessa commette contro la sicurezza pubblica, la quale risiede solamente nel rispetto per le leggi, nell’osservanza delle forme, e nel mantenimento delle salvaguardie.

La censura romana supponeva, come l’ostracismo, un potere discrezionale. In una repubblica dove tutti i cittadini, tenuti dalla povertà in una estrema semplicità di costumi, abitavano nella stessa città e non esercitavano alcuna professione che distraesse la loro attenzione dagli affari dello Stato, e trovandosi così costantemente spettatori e giudici dell’uso del potere pubblico, la censura poteva da una parte avere maggiore influenza e, dall’altra, il potere arbitrario dei censori era limitato da una sorta di vigilanza morale esercitata su di loro. Ma non appena l’estensione della repubblica, la complicazione delle relazioni sociali e l’affinamento della civiltà privarono questa istituzione di ciò che allo stesso tempo serviva da fondazione e da limite, la censura degenerò persino a Roma. Non era dunque la censura che aveva creato i buoni costumi; era la semplicità dei costumi che costituiva la potenza e l’efficacia della censura.

In Francia, un’istituzione arbitraria come la censura sarebbe al tempo stesso inefficace ed intollerabile. Nello stato attuale della società, i costumi sono formati da sfumature sottili, fluttuanti, impercettibili che sarebbero distorte in mille modi se si tentasse di definirli con maggiore precisione. Soltanto l’opinione pubblica può comprenderle; essa soltanto può giudicarle, perché ha la medesima natura. Si solleverebbe contro ogni autorità positiva che volesse conferirle maggior precisione. Se il governo di un popolo moderno volesse, come i censori di Roma, censurare un cittadino arbitrariamente, l’intera nazione protesterebbe contro questo arresto rifiutandosi di ratificare le decisioni dell’autorità.

Quel che ho detto a proposito del ripristino della censura nei tempi moderni si applica anche a molti altri aspetti della organizzazione sociale, in relazione ai quali l’antichità viene citata ancor più frequentemente e con maggiore enfasi. Come per esempio, l’educazione; che cosa non abbiamo sentito sul bisogno di permettere al governo di prendere possesso delle nuove generazioni per formarle a suo piacimento, e quante citazioni erudite sono impiegate a sostegno di questa teoria! I persiani, gli egiziani, la Gallia, la Grecia e l’Italia vengono di volta in volta messe di fronte a noi. Eppure, Signori, noi non siamo né persiani sottomessi ad un despota, né egiziani soggiogati dai preti, né galli che potevano essere sacrificati dai loro druidi, né, infine, greci o romani, la cui partecipazione all’autorità sociale li consolava del loro asservimento privato. Noi siamo uomini moderni, che vogliono ognuno godere dei propri diritti, ognuno sviluppare le proprie facoltà come preferiamo, senza nuocere a nessuno; vegliare sullo sviluppo di queste facoltà nei bambini che la natura affida al nostro affetto, tanto più illuminato quanto più è vivido; e necessitiamo che le autorità ci diano solamente gli strumenti generali di istruzione che possono offrire, così come i viaggiatori accettano da loro le principali strade senza che sia detto loro quale strada prendere.

Anche la religione è esposta a questi ricordi di ere passate. Alcuni intrepidi difensori dell’unità di dottrina citano le leggi degli antichi contro gli dei stranieri, e sostengono i diritti della Chiesa Cattolica con l’esempio degli ateniesi, che uccisero Socrate per aver minato il politeismo, e con quello di Augusto, che voleva che il popolo rimanesse fedele al culto dei padri; con il risultato, poco dopo, che i primi cristiani furono gettati ai leoni. Diffidiamo, dunque, Signori, di questa ammirazione per certe antiche memorie. Poiché viviamo nei tempi moderni, io voglio la libertà appropriata ai tempi moderni; e poiché viviamo sotto monarchie, io supplico umilmente queste monarchie di non mutuare dalle antiche repubbliche gli strumenti per opprimerci.

La libertà individuale, lo ripeto, è la vera libertà moderna. La libertà politica è la sua garanza, conseguentemente la libertà politica è indispensabile. Ma chiedere alle persone dei nostri giorni di sacrificare, come quelle del passato, l’interezza della loro libertà individuale alla libertà politica, è il mezzo più sicuro per staccare loro dalla prima e, una volta che questo risultato è stato raggiunto, sarebbe solamente troppo facile privarli della seconda.

Come vedete, Signori, le mie osservazioni non tendono affatto a sminuire il valore della libertà politica. Dai fatti che vi ho sottoposto non traggo affatto le conseguenze che altri ne traggono. Dal fatto che gli antichi erano liberi, e che noi non possiamo più essere liberi come loro, essi concludono che noi siamo destinato ad essere schiavi. Essi vorrebbero ricostituire il nuovo stato sociale con un piccolo numero di elementi i quali, essi dicono, sono i soli approppriati alla situazione del mondo odierno. Questi elementi sono i pregiudizi per spaventare gli uomini, l’egoismo per corromperli, la frivolezza per stordirli, i piaceri volgari per degradarli, il dispotismo per guidarli; e, indispensabile, conoscenza positiva e scienze esatte per servire il dispotismo più abilmente. Sarebbe strano indubbiamente se questo fosse il risultato di quaranta secoli durante i quali l’umanità ha acquisito migliori mezzi morali e fisici: non posso crederlo. Io ricavo da queste differenze che ci distinguono dall’antichità conclusioni totalmente differenti. Non è la sicurezza che dobbiamo indebolire; è il godimento dei diritti che dobbiamo estendere. Non è la libertà politica quello a cui voglio rinunciare; è la libertà civile che io pretendo, assieme ad altre forme di libertà politica. I governi, non più di quanto ne avessero ieri, non hanno il diritto di arrogarsi un potere illegittimo.

Ma i governi che scaturiscono da una fonte legittima hanno ancora minor diritto di prima di esercitare sugli individui una supremazia arbitraria. Possediamo ancora oggi i diritti che abbiamo sempre avuto, gli eterni diritti di approvare le leggi, di deliberare sui nostri interessi, di essere parte integrante del corpo sociale di cui siamo membri. Ma i governi hanno nuovi doveri; il progresso della civiltà, i mutamenti operati dai secoli richiedono dall’autorità maggior rispetto per le abitudini, per gli affetti, per l’indipendenza degli individui. Essi deve gestire tutti questi argomenti con una mano più prudente e leggera.

Questo riserbo dell’autorità, che è uno dei suoi più rigidi doveri, eguamente rappresenta i suoi interessi ben intesi; poiché, se la libertà che si adatta ai moderni è differente da quella che era propria degli antichi, il dispotismo che era possibile presso gli antichi non è più possibile presso i moderni. Giacché siamo spesso meno assorbiti dalla libertà politica di quanto potevano esserlo loro e che in circostanze ordinarie siamo meno appassionati per essa, può conseguirne che trascuriamo, talvolta troppo e sempre erroneamente, le garanzie che essa ci assicura. Ma al tempo stesso, dato che siamo molto più assorbiti degli antichi dalla libertà individuale, noi la difenderemo, se è attaccata, con maggior abilità e persistenza; e noi per difenderla abbiamo mezzi che gli antichi non avevano.

Il commercio rende l’azione del potere arbitrario sulla nostra esistenza più oppressiva che passato, perché, dato che le nostre speculazioni sono più varie l’arbitrio deve moltiplicarsi per raggiungerle. Ma il commercio rende anche l’azione del potere arbitrario più facile da eludere, perché cambia la natura della proprietà, che diviene, in virtù di questo cambiamento, quasi impossibile da afferrare.

Il commercio conferisce alla proprietà una qualità nuova, la circolazione. Senza circolazione la proprietà è meramente un usufrutto; l’autorità politica può sempre influire sull’usufrutto, perché può prevenirne il godimento; ma la circolazione pone un ostacolo invisibile e invincibile alle azioni del potere sociale.

Gli effetti del commercio si estendono ancor oltre: non soltanto esso emancipa gli individui, ma, creando il credito, pone l’autorità stessa in una posizione di dipendenza. Il denaro, dice uno scrittore francese: «è l’arma più pericolosa del dispotismo; ma è al tempo stesso il suo più potente freno; il credito è soggetto all’opinione; la forza è inutile; il denaro si nasconde o fugge; tutte le operazioni dello Stato sono sospese». Il credito non aveva la stessa influenza presso gli antichi; i loro governi erano più forti degli individui; mentre nella nostra epoca gli individuo sono più forti dei poteri politici. La ricchezza è una forza che è più disponibile in ogni circostanza, più applicabile ad ogni interesse e quindi più reale e meglio obbedita. Il potere minccia; la ricchezza ricompensa: si sfugge al potere ingannandolo; per ottenere i favori della ricchezza bisogna servirla: quest’ultima è quindi destinata a vincere.

Come conseguenza, l’esistenza individuale è meno assorbita dall’esistenza politica. Gli individui trasferiscono lontano i loro tesori; portano con se tutti i godimenti della vita privata. Il commercio ha ravvicinato le nazioni, ha dato loro costumi e abitudini quasi identici; i Capi di Stato possono essere nemici: i popoli sono compatrioti. Il potere, dunque, si rassegni: abbiamo bisogno della libertà e l’avremo. Ma poiché la libertà che ci occorre è differente da quella degli antichi, essa necessita un’organizzazione differente da quella degli antichi, necessita un’organizzazione differente da quella adatta alla libertà antica. In quest’ultima, quanto più un uomo dedicava tempo ed energie all’esercizio dei suoi diritti politici, tanto più si credeva libero; d’altronde, nel tipo di libertà che si addice a noi, quanto più l’esercizio dei diritti politici ci lascerà tempo per i nostri interessi privati, tanto più la libertà ci sarà preziosa.

Di qui, Signori, scaturisce la necessità del sistema rappresentativo. Il sistema rappresentativo non è altro che una organizzazione mediante la quale una nazione incarica pochi individui di fare ciò che non può o non vuol fare da sé. I poveri curano direttamente i proprio affari: i ricchi assumono degli amministratori. È la storia delle nazioni antiche e moderne. Il sistema rappresentativo è una procura data a un certo numero di uomini dalla massa del popolo che vuole i propri interessi siano difesi e che nondimeno non ha il tempo di difenderli da sé. Ma, a meno che siano idioti, i ricchi che assumoni degli amministratori esaminano con attenzione e severità se gli intendenti compiono il loro dovere, se sono negligenti o corruttibili o incapaci; e per giudicare della gestione di questi amministratori, i proprietari, se sono prudenti, si tengono al corrente degli affari di cui affidano loro l’amministrazione. Parimenti, i popoli che, al fine di godere della libertà che si adatta a loro, ricorrono al sistema rappresentativo, debbono esercitare una sorveglianza attiva e costante sui loro rappresentanti, e riservarsi per sé stessi, in tempi che non siano separati da intervalli troppo lunghi, il diritto di allontanarli se hanno tradito la loro fiducia e di revocare i poteri di cui avessero abusato.

Dal fatto che la libertà moderna differisca dalla libertà antica deriva infatti che essa è anche minacciata da un pericolo di natura differente. Il pericolo della libertà antica era che gli uomini, attenti soltanto ad assicurarsi la propria partecipazione al potere sociale, dessero troppo poco valore ai diritti e ai godimenti individuali.

Il pericolo della libertà moderna è che, assorbiti nel godimento della nostra indipendenza privata e nel perseguimento dei nostri interessi particolari, noi possiamo rinunciare troppo facilmente alla partecipazione nel potere politico. I depositari dell’autorità sono fin troppo pronti ad incorraggiarci a questo. Sono tanto disposti a risparmiarci tutta una serie di problemi, eccetto quelli di obbedire e di pagare ! Essi ci diranno: qual è, in fondo, lo scopo dei vostri sforzi, il motivo dei vostri lavori, l’oggetto di tutte le vostre speranze ? Non è la felicità ? Ebbene, lasciate fare noi e noi ve la daremo. No, Signori, non lasciamo fare a loro. Per quanto commovente sia un così tenero interessamento, chiediamo alle autorità di restare nei loro confini. Si limitino ad essere giusti. Noi stessi assumeremo la responsabilità di essere felici.

Potremmo esser resi felici da distrazioni, se queste distrazioni fossero senza garanzie ? E dove troveremmo queste garanzie, senza la libertà politica ? Rinunciarvi, Signori, sarebbe una follia come quella di chi, poiché abita al primo piano, non si curasse se la casa stessa fosse costruita sulla sabbia.

D’altronde, Signori, è dunque vero che la felicità, di qualsiasi tipo, sia il fine unico del genere umano ? Se fosse così, il nostro corso sarebbe assai ristretto, e la nostro destinazione ben poco elevata. Non c’è nessuno di noi che, se volesse degradarsi, restringere le sua facoltà morali, abbassare i suoi desideri, abdicare all’attività, alla gloria, alle emozioni generose e profonde, non potrebbe sminuirsi ed essere felice. No, Signori, chiamo a testimone la parte migliore della nostra natura, questa nobile inquietudine che ci perseguita e ci tormenta, questo desiderio di estendere la nostra conoscenza e di sviluppare le nostre facoltà. Non è alla sola felicità, ma al perfezionamento che il nostro destino ci chiama; e la libertà politica è il più potente, efficace mezzo di perfezionamento che il cielo ci abbia dato.

La libertà politica, sottomettendo a tutti i cittadini, senza eccezione, la cura e lo studio dei loro interessi più sacri, allarga il loro spirito, nobilita i loro pensieri e stabilisce tra loro una sorta di eguaglianza intellettuale che forma la gloria e la potenza di un popolo.

Così, vedete come una nazione cresce con la prima istituzione che le restituisce l’esercizio regolare della libertà politica. Vedete i nostri concittadini di tutte le classi, di tutte le professioni, emergere dalla sfera dei loro lavori abituali e della loro industria privata, trovarsi improvvisamente al livello delle importanti funzioni che le costituzioni affidano loro, scegliere con discernimento, resistere con energia, affrontare le minacce, nobilmente opporsi alla seduzione. Vedete un puro, profondo e sincero patriottismo trionfare nelle nostre città e ravvivare perfino i nostri più piccoli villaggi, permeare le nostre officine, rianimare le nostre campagne, penetrare i giusti ed onesti spiriti del coltivatore utile e del commerciante industrioso con il senso dei nostri diritti e della necessità di garanzie; essi, educati nella storia dei mali che hanno subito, e non meno consci dei rimedi che questi mali esigono, abbracciano con un solo sguardo la Francia intera e, conferendo una gratitudine nazionale, ricompensano con i loro suffragi, dopo trenta anni, la fedeltà ai principi incarnati dalla persona del più illustre difensore della libertà[6. Il signore de Lafayette, nominato deputato per la Sarthe].

Dunque, Signori, lungi dal rinunciare ad alcuna delle due specie di libertà che vi ho descriitto, è necessario, come ho dimostrato, imparare a combinarle insieme entrambe. Le istituzioni, dice il famoso autore della Histoire des républiques du moyen àge[7. Simonde de Sismondi], debbono compiere il destino del genere umano; esse possono meglio raggiungere il loro scopo se innalzano il maggior numero possibile di cittadini alla più alta posizione morale.

L’opera del legislatore non è completa quando ha soltanto portato pace al popolo. Anche quando il popolo è soddisfatto, resta ancora molto da fare. Le istituzioni devono realizzare l’educazione morale dei cittadini. Rispettando i loro diritti individuali, assicurando la loro indipendenza, evitando di turbare il loro lavoro, esse debbono comunque consacrare la loro influenza sugli affari pubblici, chiamarli a concorrere con i loro voti all’esercizio del potere, garantire loro un diritto di controllo e di supervisione esprimendo le loro opinioni; e, formandoli in tal modo mediante la pratica di queste elevate funzioni, dare loro sia il desiderio e la facoltà di adempierle.

Benjamin Constant, 1819

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