Ho tradotto, da una versione inglese, il testo di Benjamim Constant
sia perché è un testo interessante, anche se non sempre condivisibile
quando parla di Roma, sia perché tenersi in allenamento con le
traduzioni è sempre divertente. Lo trovo interessante soprattutto per il
suo modo di ragionare, radicato nella storia, che rivela spunti utili,
come l’invenzione della vita privata, e cerca di scoprire le motivazioni
per cui un sistema possa divenire inadatto o persino dannoso con il
passare del tempo. Vista anche l’attuale crisi della democrazia europea
può anche essere d’ispirazione.
Signori,
vorrei sottoporre alla vostra attenzione alcune distinzioni, ancora
piuttosto nuove, tra due tipi di libertà: queste differenza sono finora
rimaste inosservate, od almeno non sufficientemente rimarcate. La prima è
la libertà il cui esercizio era così caro agli antichi popoli; la
seconda quella il cui godimento è particolarmente prezioso per le
nazioni moderne. Se io sono nel giusto, questa investigazione si
rivelerà interessante da due differenti angolazioni.
Innanzitutto, la confusione di questi due tipi di libertà è stata tra di
noi, nei giorni troppo famosi della nostra Rivoluzione, la causa di
molte malvagità. La Francia è stata esaurita dagli esperimenti inutili, i
cui autori, irritati dal loro povero successo, cercarono di forzarla a
godere il bene che essa non voleva, e le negarono il bene che voleva.
Secondariamente, chiamati come noi siamo dalla nostra felice rivoluzione
(la chiamo felice, nonostante i suoi eccessi, perché concentro la mia
attenzione sui suoi risultati) a godere i benefici del governo
rappresentativo, è curioso ed interessante scoprire perché questa forma
di governo, l’unica al riparo della quale noi possiamo trovare qualche
libertà e pace oggi, era totalmente sconosciuta alle nazioni libere
dell’antichità.
So che ci sono scrittori che hanno preteso di riconoscere tracce di essa
tra alcuni popoli antichi, nella repubblica Lacedemone [1. Sparta] per
esempio, o tra i nostri antenati i Galli; ma essi si sono sbagliati. Il
governo Lacedemone era un’aristocrazia monastica [2. una sorta di
ierocrazia, governo del clero], ed in alcun modo un governo
rappresentativo. Il potere dei re era limitato, ma era limitato dagli
efori, e non da uomini investiti di una missione simile a quella che le
elezioni conferiscono oggi ai difensori delle nostri libertà. Gli efori,
senza dubbio, sebbene originariamente creati dai re, erano eletti dal
popolo. Ma ve ne erano solo cinque di loro. La loro autorità era tanto
religiosa quanto politica; essi addirittura condividevano
l’amministrazione del governo, cioè, il potere esecutivo. Tali erano le
loro prerogative, come quelle di quasi tutti i magistrati popolari nelle
repubbliche antiche, lungi dall’essere semplicemente una barriera
contro la tirannia talvolta essi stessi divenivano una tirannia
insopportabile.
Il regime dei Galli, che assomigliava proprio a quello che un certo
partito vorrebbe ripristinare per noi, era allo stesso tempo teocratico e
guerriero. I sacerdoti godevano di potere illimitato. La classe
militare o nobilità aveva privilegi oppressivi e marcatamente sfacciati;
le persone non avevano diritti o salvaguardie.
A Roma i tribuni avevano, fino ad un certo punto, una missione
rappresentativa. Essi erano gli organi di quei plebei cui l’oligarchia –
la quale è la stessa in tutte le età – aveva sottomesso, nel rovesciare
i re, ad una così dura schiavitù. Il popolo, comunque, esercitava una
larga parte dei diritti politici direttamente. Essi si incontravano per
votare le leggi e giudicare i patrizi contro i quali erano state mosse
delle accuse: dunque vi erano, a Roma, solo flebili tracce di un sistema
rappresentativo.
Questo sistema è una scoperta dei moderni, e vedrete, Signori, che la
condizione del genere umano nell’antiquità non permise l’introduzione o
la fondazione di un’istituzione di questa natura. Gli antichi popoli non
potevano né sentirne il bisogno, né apprezzarne i vantaggi. La loro
organizzazione sociale li portava a desiderare una libertà del tutto
differente da quella che questo sistema garantisce a noi. L’intervento
di questa notte sarà interamente dedicato a dimostrarvi questa verità.
Innanzitutto chiedete a voi stessi, signori, che cosa un inglese, un
francese ed un cittadino degli Stati Uniti intendono oggi con la parola libertà.
Per ognuno di loro è il diritto di essere soggetti solamente alle
leggi, e non essere arrestato, detenuto, messo a morte o maltrattato in
qualsiasi modo da una volontà arbitraria di uno o più individui. É il
diritto di ognuno di esprimere la propria opinione, scegliere una
professione e praticarla, di disporre della proprietà, e anche di
abusarne; di andare e venire senza permesso, e senza dover dare
spiegazioni riguardo le sue intenzioni od imprese. É il diritto di
ognuno di associarsi con altri individui, o per discutere i suoi
interessi, o per professare la religione che egli ed i suoi associati
preferiscono, ed anche semplicemente per occupare i propri giorni od ore
nel modo che è più consono alle sue inclinazioni o capricci. Infine è
il diritto di oguno di esercitare qualche influenza sull’amministrazione
del governo, o eleggendo tutti od alcuni ufficiali, oppure attraverso
rappresentanze, petizioni, richieste alle quali le autorità sono più o
meno tenute a dar retta. Ora confrontate questa libertà con quella degli
antichi.
Quest’ultima consisteva nell’esercitare collettivamente, ma
direttamente, diverse parti della completa sovranità; nel deliberare,
nella pubblica piazza, circa la guerra e la pace; nel formare alleanze
con governi stranieri; nel votare leggi, nel pronunciare giudizi;
nell’esaminare i resoconti, gli atti, l’amministrazione dei magistrati
[3. intesi come funzionari]; nel chiamarli ad apparire di fronte alle
persone riunite, nell’accusarli, condannarli od assorverli. Ma se questo
era ciò che gli antichi chiamavano libertà, essi ammettevano come
compatibile con questa libertà collettiva la completa sottomissione
dell’individuo all’autorità della comunità. Non si può trovare tra di
loro quasi nessuno dei piaceri che abbiamo visto come parte della
libertà dei moderni. Tutte le azioni private erano sottoposte ad una
forte sorveglianza. Nessuna importanza era data all’indipendenza
individuale, né in relazione alle opinioni, né al lavoro, né,
sopratutto, alla religione. Il diritto di scegliere la propria
affiliazione religiosa, un diritto che noi consideriamo come uno dei più
preziosi, sarebbe sembrato agli antichi un crimine ed un sacrilegio.
Nel dominio che sembra a noi il più utile, l’autorità del corpo sociale
interponeva sé stessa ed ostruiva la volontà degli individui. Tra gli
Spartani, Terpandro non poté aggiungere una riga alla sua lirica senza
causare offesa agli efori. Nelle più domestiche delle relazioni la
pubblica autorità interveniva nuovamente. Il giovane lacedemone non
poteva visitare la sua nuova moglie liberamente. A Roma, i censori
gettavano un occhio indagatore sulla vita familiare. Le leggi regolavano
i customi e, dato che i costumi toccavano ogni cosa, vi era a stento
qualcosa che le leggi non regolavano.
Così tra gli antichi l’individuo, quasi sempre sovrano nei pubblici
affari, era uno schiavo nelle sue relazioni private. Come cittadino,
egli decideva sulla pace e sulla guerra; come individuo privato, egli
era costretto, guardato e represso in tutti i suoi movimenti; come un
membro del corpo collettivo, egli interrogava, respingeva, condannava,
riduceva in miseria, esiliava o sentenziava a morte i suoi magistrati e
superiori; come un soggetto del corpo collettivo egli stesso poteva
essere privato del suo stato, spogliato dei suoi privilegi, bandito,
messo a morte, dalla volontà discrezionale dell’intero a qui egli
apparteneva. Tra i moderni, al contrario, l’individuo, indipendente
nella sua vita privata, e, anche nel più libero degli stati, sovrano
solo in apparenza. La sua sovranità è ristretta e quasu sempre sospesa.
Se, a fissi e rari intervalli, nei quali egli è ancora circondato da
precauzioni ed ostacoli, egli esercita questa sovranità, è sempre
unicamente per rinunciarvi[4. vale a dire per eleggere un
rappresentante].
Io devo a questo punto, Signori, fermarmi un momento per anticipare
un’obiezione che potrebbe essermi rivolta. C’era nell’antichità una
repubblica dove la schiavitù dell’esistenza individuale al corpo
collettivo non era completa come quella che ho descritto. Questa
repubblica era la più famosa di tutte: intuirete che sto parlando di
Atene. Vi ritornerò più tardi, a nel sottoscrivere la verità di questo
fatto, io ne indicherò anche la sua causa. Vedremo perché, di tutti gli
stati antichi, Atene era quello che più assomigliava a quelli moderni.
In tutti gli altri la giurisdizione sociale era illimitata. Gli antichi,
come dice Condorcet, non avevano nozione di diritti individuali. Gli
uomini erano, per così dire, meramente macchine, i cui ingranaggi e
ruote dentate erano regolati dalla legge. La stessa soggezione
caratterizzava i secoli d’oro della Repubblica Romana; l’individuo era
in qualche modo perso nella nazione, il cittadino nella città. Noi
rintracceremo questa essenziale differenza tra gli antichi e noi stessi
fino alla sua fonte.
Tutte le antiche repubbliche erano ristrette ad un piccolo territorio.
Il più popoloso, il più potente, il più sostanziale tra di loro, non era
uguale in estensione al più piccolo degli stati moderni. Come
conseguenza inevitabile del loro piccolo territorio, lo spirito di
queste repubblice era bellicoso; ogni popolo incessantemente attaccava i
suoi vicini od era attaccato da loro. Così condotti dalla necessità
l’uno contro l’altro, essi si combattevano o si minacciavano l’un
l’altro costantentemente. Quelli che non avevano ambizione di essere
conquistatori, non potevano comunque posare le loro armi, per paura di
poter essere conquistati. Tutti avevano da comprare la propria
sicurezza, la propria indipendenza, la propria intera esistenza al
prezzo della guerra. Questo era il costante interesse, l’occupazione
quasi abituale degli stati liberi dell’antichità. Alla fine, quale un
egualmente necessario risultato di questo modo di essere, tutti questi
stati avevano schiavi. Le professioni meccaniche e persino, tra alcuni
nazioni, quelle industriali, era legate a persone in catene.
Il mondo moderno ci offre una visione completamente opposta. I più
piccoli stati dei nostri giorni sono incomparabilmente più grandi di
quanto Sparta o Roma[5. questo è chiaramente un errore] fossero durante
cinque secoli. Perfino la divisioni dell’Europa in parecchi stati è,
grazie al progresso dell’illuminismo, più apparente che reale. Mentre
ogni popolo, nel passato, formava una famiglia isolata, nato nemico di
altre famiglie, una massa di esseri umani ora esiste, che, sotto nomi
differenti e sotto forme differenti di organizzazione sociale, sono
essenzialmente omogenei nella loro natura. Questa massa è abbastanza
forte da non avere niente da temere dalle orde barbare. É
sufficientemente civilizzata da trovare la guerra un peso. La sua
tendenza uniforme è verso la pace.
Questa differenza porta ad un’altra. La guerra precede il commercio.
Guerra e commercio sono solo due mezzi differenti per ottenere lo stesso
fine, che è quello di ottenere ciò che si vuole. Il commercio è
semplicemente il tributo pagato alla forza del possessore dall’aspirante
al possesso. É un tentativo di conquistare, tramite un mutuo accordo,
ciò che si non può più sperare di ottenere attraverso la violenza. Un
uomo che fosse stato sempre il più forte non potrebbe mai concepire
l’idea del commercio. É l’esperienza, provando a lui che la guerra, cioè
l’uso della sua forza contro la forza degli altri, lo espone ad una
varietà di ostacoli e sconfitte, che lo conducono a ricorrere al
commercio, che è un più mite e sicuro mezzo per impegnare l’interesse
degli altri ad accettare ciò che si adatta al suo. La guerra è tutto
impulso, il commercio, calcolo. Da ciò consegue che un’era deve arrivare
nella quale il commercio rimpiazza la guerra. Noi abbiamo raggiunto
questa era.
Non intendo dire che tra gli antichi non vi fossero popoli commercianti.
Ma questi popoli erano per certi versi un’eccezione alla regola
generale. I limiti di questo intervento non mi permettono di illustrare
tutti gli ostacoli i quali si opponevano allora al progresso del
commercio; voi li conoscete bene quanto me; Ne menzionerò solamente uno
di loro.
La loro ignoranza della bussola significava che i marinai dell’antichità
dovevano sempre tenersi vicini alla costa. Passare attraverso le
Colonne di Ercole, cioè, lo stretto di Gibilterra, era considerata la
più audace delle imprese. I fenici ed i cartaginesi, i più abili dei
navigatori, non la rischiarono fino a molto tardi, ed il loro esempio
rimase a lungo senza imitatori. In Atene, di cui parleremo presto,
l’interesse in imprese marittime era circa il 60%, mentre l’interesse
ordinario era solamente il 12%: ecco come sembrava pericolosa l’idea
della navigazione per lunghe distanze.
Inoltre, se potessi permettermi una digressione che sfortunatamente si
proverebbe troppo lunga, vi mostrerei, Signori, attraverso i dettagli
dei customi, abitudini, modi di commerciare con altri dei popoli
commercianti dell’antichità, che il loro stesso commercio era impregnato
dello spirito del tempo, dall’atmosfera di guerra ed ostilità che lo
circondava. Il commercio era allora uno sfortunato accidente, oggi è il
normale stato delle cose, il solo scopo, la tendenza universale, la vera
vita delle nazioni. Esse vogliono pace, e con la pace conforto, a come
sorgente di conforto, industria. Ogni giorno la guerra diviene un più
inefficace mezzo per soddisfare i loro desideri. I suoi azzardi non
offrono più agli individui benefici che corrispondono ai risultati del
lavoro pacifico e degli scambi regolari.
Fra gli antichi, una guerra vittoriosa incrementava sia la ricchezza
pubblica che privata con schiavi, tributi e terre ripartite. Per i
moderni, anche una guerra vinta costa infallibilmente più di quel che
vale. Infine, grazie al commercio, alla religione, al progresso morale
ed intellettuale della razza umana, non ci sono più schiavi tra le
nazioni europee. Liberi uomini deveno esercitare tutte le professioni,
provvedere per tutte le necessità della società.
É facile vedere, Signori, l’inevitabile risultato di queste differenze.
Innanzitutto, la dimensione di uno stato causa una corrispondente
diminuzione dell’importanza concessa ad ogni individuo. Il più oscuro
repubblicano di Sparta o Roma aveva potere. Lo stesso non è vero per i
semplice cittadini della Gran Bretagna o degli Stati Uniti. La sua
personale influenza è una parte impercettibile della volontà sociale che
imprime al governo la sua direzione.
In secondo luogo, l’abolizione della schiavitù ha privato la popolazione
libera di tutto l’agio risultante dal fatto che gli schiavi si
prendessero cura della maggior parte degli obblighi. Senza la
popolazione di schiavi di Atene, 20.000 Ateniesi non avrebbero mai
potuto spendere in discussioni ogni giorno alla piazza pubblica. Terzo,
il commercio non lascia, come la guerra, intervalli di inattività nelle
vite degli uomini. Il costante esercizio di diritti politici, le
discussioni giornaliere degli affari di stato, i disaccordi, le
confabulazioni, l’intero seguito e movimento delle fazioni, le
necessarie agitazioni, l’obbligatorio riempimento, se posso usare questo
termine, della vita delle persone dell’antichità, che, senza questa
risorse avrebbero languito sotto il peso di una dolente inazione,
causerebbe solo problemi e fatica alle moderne nazioni, dove ogni
individuo, occupato con le speculazioni, le sue imprese, i piaceri che
ottiene o per cui spera, non vuole essere distratto da loro se non
momentaneamente, e per il minor tempo che sia possibile.
Infine, il commercio ispira negli uomini un vivo amore dell’indipendenza
individuale. Il commercio provvede i suoi bisogni, soddisfa i suoi
desideri, senza l’intervento dell’autorità. Questo intervento è quasi
sempre – e non so perché io dica quasi – questo intervento è
certamentente sempre un problema ed un imbarazzo. Ogni volta che il
potere collettivo vuole intromettersi nelle speculazioni private,
infastidisce gli speculatori. Ogni volta che il governo finge di fare il
nostro interesse, lo fa più incompetentemente e costosamente di quello
che vorremmo.
Ho detto, Signori, che sarei ritornato ad Atene, il cui esempio potrebbe
essere opposto ad alcune delle mie asserzioni, ma che infatti le
confermerà tutte. Atene, come ho già fatto notare, era fra tutte le
repubbliche greche la più strettamente impegnata nel commercio, così
permetteva ai suoi cittadini un libertà individuale infinitamente più
grande che Sparta o Roma. Se io potessi entrare nei dettagli storici, vi
mostrerei che, tra gli ateniesi, il commercio aveva rimosso parecchie
delle differenze che distinguevano i popoli antichi da quelli moderni.
Lo spirito dei mercanti ateniesi era simile a quello dei mercanti dei
nostri giorni. Senofonte ci dice che durante la Guerra del Peloponneso,
essi mossero i loro capitali dal continente di Attica per metterli sulle
isole dell’arcipelago. Il commercio aveva creato tra di loro la
circolazione del denaro. In Isocrate v’erano segni che le banconote di
scambio venissero usate. Osservato come i loro costumi assomigliano ai
nostri. Nelle loro relazioni con le donne, vedete, ancora cito
Senofonte, che i mariti, soddisfatti quando la pace ed una decorosa
amicizia regnava nelle loro famiglie, facevano concessioni per la moglie
che era troppo vulnerabile di fronte alla tirannia della natura,
chiudevano i loro occhi all’irresistibile potere delle passioni,
perdonavano la prima debolezza e dimenticavano la seconda. Nelle loro
relazioni con gli stranieri, vedete loro estendere i diritti della
cittadinanza a chiunque, spostandosi tra di loro con la sua famiglia,
stabilisse qualche commercio o industria.
Infine, dovremmo essere colpiti dal loro amore eccessivo per
l’indipedenza individuale. In Sparta, dice un filosofo, i cittadini
accelerano il loro passo quanto sono chiamati da un magistrato; ma un
ateniese sarebbe disperato se si pensasse che dipendesse da un
magistrato. Tuttavia, diverse altre circostanza che determinavano il
carattere delle antiche nazioni esistevano in Atene allo stesso modo;
come altrove vi era una popolazione di schiavi ed il territorio era
molto ristretto; noi troviamo anche qui tracce di libertà proprie degli
antichi. Le persone facevano le leggi, esaminavano il comportamento dei
magistrati, chiamarono Pericle a rendere conto della sua condotta,
sentenziarono a morte i generali che avevano comandanto la Battaglia
delle Arginuse. Similmente l’ostracismo, quell’arbitrarietà legale, era
celebrata da tutti i legislatori dell’epoca; l’ostracismo, che appare a
noi, e giustamente, un’ingiustizia rivoltante, prova che l’individuo era
molto più subordinato alla supremazia del corpo sociale in Atene, di
quello che egli sia in ognuno degli stati liberi dell’Europa di oggi.
Segue da ciò che ho appena indicato che noi non possiamo più godere
della libertà degli antichi, la quale consisteva in un’attiva e costante
partecipazione al potere collettivo. La nostra libertà deve consistere
nel pacifico godimento e nella privata indipendenza. La partecipazione
che nell’antichità ognuno aveva nella sovranità nazionale non era
affatto un’astratta ipotesi come è ai giorni nostri. La volontà di ogni
individuo aveva reale influenza: l’esercizio di questa volontà era un
vivido e ripetuto piacere. Di conseguenza gli antichi erano pronti a
fare molti sacrifici per preservare i loro diritti politici e la loro
partecipaione all’amministrazione dello stato. Ognuno, sentendo con
orgoglio ciò che il proprio suffragio valeva, trovava in questa
coscienza della sua personale importanza una grande compensazione.
Questa compensazione non esiste più per noi oggi. Perso nella
moltitudine, l’individuo non può quasi mai percepire l’influenza che
esercita. L’esercizio dei diritti politici, quindi, ci offre solo una
parte dei piaceri che gli antichi trovavano in essa, mentre allo stesso
tempo il progresso della civilizzazione, la tendenza commerciale
dell’era, la comunicazione tra le persone, hanno infinitamente
moltiplicato e variato i mezzi di felicità personale.
Da ciò segue che noi dobbiamo essere molto più attaccati degli antichi
alla nostra indipendenza individuale. Per gli antichi, quando essi
sacrificavano l’indipendenza per i diritti politici, sacrificavano poco
per ottenere molto; mentre nel fare lo stesso sacrificio noi daremmo
molto per ottenere poco. Lo scopo degli antichi era la condivisione del
potere sociale tra i cittadini della stessa madrepatria: questo è ciò
che essi chiamavano libertà. L’obiettivo dei moderni è il godimento
della sicurezza in piaceri privati; ed essi chiamano libertà la garanzia
accordata dalle istituzioni a questi piaceri.
Dissi all’inizio che, attraverso il fallimento a cogliere queste
differenze, uomini altrimenti ben intenzionati uomini casuarono infiniti
mali duranta la nostra lunga e tempestosa rivoluzione. Dio non voglia
che io li rimproveri troppo duramente. Il loro errore stesso era
scusabile. Non si poteva leggere le belle pagine dell’antichità, non si
poteva richiamare le azioni dei suoi grandi uomini, senza sentire
un’indefinibile e speciale emozione, che nulla di moderno può
assolutamente suscitare. I vecchi elementi di una natura antecedente,
per così dire, alla nostra, sembrano risvegliare in noi queste memorie. É
difficile non rimpiangere il tempo quando le facoltà dell’uomo si
sviluppavano lungo un percorso già battuto, ma in una così vasta
carreggiata, così forti nei loro poteri, con un tale sentimento di
energia e dignità. Una volta che ci abbandoniamo a questo rimpianto, è
impossibile non voler imitare ciò che rimpiangiamo. Questa impressione
era molto profonda, specialmente quando vivevamo sotto governi crudeli, i
quali, senza essere forti, era repressivi nei loro effetti; assurdi nei
loro principi; abbietti in azione; governi che avevano come loro
cardine il potere arbitrario; come loro scopo lo sminuimento
dell’umanità; e che taluni individui ancora osano elogiare a noi oggi,
come se potessimo mai dimenticare che siamo stati testimoni e vittime
della loro ostinazione, della loro impotenza e del loro rovesciamento.
L’obiettivo dei nostri riformatori era nobile e generoso. Chi fra noi
non sentì il suo cuore battere con speranza all’inizio del corso che
essi sembravano aprire ? E vergogna, persino oggi, su chiunque non senta
la necessità di dichiarare che il riconoscimento di pochi errori
commessi dalle nostre prime guide, non significa rovinare la loro
memoria o rinnegare le opinioni che gli amici dell’umanità hanno
professato attraverso i secoli.
Ma quegli uomini avevano derivato diverse delle loro teorie dai lavori
di due filosofi che avevano essi stessi fallito nel riconoscere i
cambiamenti portati da duemila anni nelle disposizioni dell’umanità. Io
dovrei forse esaminare in qualche punto il sistema del più illustre di
questi filosofi, di Jean-Jacques Rosseau, e dovrei dimostrare che,
trasponendo nella nostra era moderna un’entità di potere sociale, di
sovranità collettiva, la quale apparteneva ad altri secoli, questo
sublime genio, animato dal più puro amore della libertà, ha nondimeno
fornito mortali pretesti per più di un genere di tirannia. Senza dubbio,
nel far notare ciò che io ritengo un’incomprensione che è importante
rivelare, dovrà essere attento nella mia refutazione, e rispettoso nel
mio criticismo. Dovrò certamente astenermi dall’unirmi io stesso ai
detrattori di un grande uomo. Quando il caso fa sì che io trovi me
stesso apparentemente in accordo con essi su qualche punto particolare,
io sospetterò me stesso; e per consolare me stesso, per apparire per un
momento in accordo con loro su di una singola parziale questione, io
devo rinnegare e denunciare con tutte le mie energie questi pretesi
alleati.
Nondimeno, gli interessi della verità devono prevalere sopra le
considerazioni che fanno la gloria di un prodigioso talento e l’autorità
di una immensa reputazione così potente. Oltretutto, come vedremo, non è
a Rousseau che noi dobbiamo principalmente attribuire l’errore contro
il quale andrò ad argomentare; questo deve essere imputato molto di più
ad uno dei suoi successori, meno eloquente, ma non meno austero e mille
volte più esagerato. Quest’ultimo, l’Abate di Mably, può essere
considerato come il rappresentante del sistema il quale, in accordo con
le massime della libertà antica, esigeva che i cittadini dovessero
essere interamente sottomessi affinché la nazione fosse sovrana, e che
l’individuo dovesse essere schiavo perché il popolo fosse libero.
L’Abate di Mably, come Rousseau e molti altri, fraintese, esattamente
come fecero gli antichi, l’autorità del corpo sociale per la libertà; e a
lui ogni mezzo sembrò buono se estendeva la sua area di autorità sopra
quella recalcitrante parte dell’umana esistenza la cui indipendenza egli
deplorava. Il rammarico che egli esprime ovunque nei suoi lavori è che
la legge può solamente coprire le azioni. Egli avrebbe voluto che essa
coprisse i più fugaci pensieri ed impressioni; per inseguire
inesorabilmente l’uomo, non lasciandogli alcun rifugio nel quale potesse
scappare dal suo potere. Non appena egli apprendeva, non importa tra
quale popolo, di qualche misura oppressiva, egli pensava di aver fatto
una scoperta e la proponeva come un modello. Egli detestava la libertà
individuale come un nemico personale; ed ogni qual volta nella storia in
cui si imbatteva in una nazione totalmente priva di essa, persino se
essa non aveva libertà politica, egli non poteva evitare di ammirarla.
Egli andò in estasi per gli Egizi, perché, come egli disse, tra di loro
ogni cosa era prescritta dalla legge, fino ai rilassamenti ed ai
bisogni: ogni cosa era soggetta all’imperio del legislatore. Ogni
momento del giorno era riempito di qualche dovere; l’amore stesso era
oggetto di questo rispettato intervento, ed era la legge che a turno
apriva e chiudeva le tende del letto nuziale.
Sparta, che combinava forme repubblicane con la stessa schiavitù degli
individui, suscitò nello spirito di quel filosofo un ancor più vivido
entusiasmo. Quelle vaste caserme monastiche a lui sembravano l’ideale di
una perfetta repubblica. Egli aveva un profondo disprezzo per Atene, ed
avrebbe felicemente detto di questa nazione, la prima della Grecia, ciò
che un accademico e grande nobile disse dell’Accademia Francese: «che
sconvolgente dispotismo ! Chiunque fa ciò che gli pare lì». Io devo
aggiungere che questo grande nobile stava parlando dell’Accademia
com’era trent’anni fa.
Montesquieu, che aveva una mente meno eccitabile e quindi più attenta,
non cadde infatti negli stessi errori. Egli fu colpito dalle differenze
di cui vi ho riferito; ma egli non scoprì la loro vera causa. I politici
greci che vissero sotto il governo popolare non riconoscevano, egli
argomenta, ogni altro potere se non la virtù. I politici di oggi parlano
solamente di manufatture, di commercio, di finance, di ricchezza e
persino di lusso. Egli attribuisce questa differenza alla repubblica ed
alla monarchia. Dovrebbe invece essere attribuita all’opposto spirito
dei tempi antichi e moderni. I cittadini delle repubbliche, i sudditi
delle monarchie, tutti vogliono i piaceri, e senza dubbio nessuno, nella
condizione presente delle società può evitare di volerli. Il popolo più
attaccato alla libertà nei nostri giorni, prima dell’emancipazione
della Francia, era anche il più attaccato ai piaceri della vita; ed esso
valorizzava la sua libertà specialmente perché esso vedeva in ciò la
garanzia dei piaceri che amava. Nel passato, dove vi era libertà, il
popolo poteva sopportare le avversità. Ora, ovunque vi siano avversità,
la schiavitù è necessaria perché il popolo si arrenda ad esse. Sarebbe
più semplice oggi fare spartani di un popolo schiavo che trasformare
uomini liberi in spartani.
Gli uomini che furono portati dagli eventi alla testa della nostra
rivoluzione erano, come necessaria conseguenza dell’educazione che
avevano ricevuto, immersi in visioni antiche che non erano più valide,
che i filosofi che ho menzionato avevano portato in auge. La metafisica
di Rousseau, nel mezzo della quale illuminava l’occasionale pensiero
sublime e passaggi di entusiasmante eloquenza; l’austerità di Mably, la
sua intolleranza, il suo odio di tutte le passioni umane, la sua foga di
asservirle tutte, i suoi esagerati principi sulla competenza della
legge, la differenza tra ciò che egli raccomandava e ciò che era
precendentemente esistito, le sue declamazioni contro la ricchezza e
persino contro la proprietà; tutte queste cose erano destinate ad
incantare uomini infuocati dalla loro recente vittoria, e che, avendo
vinto il potere sopra la legge, erano fin troppo disposti ad estendere
il potere su tutte le cose. Era per loro un’autorità preziosa quella di
due scrittori che, disinteressati alla questione e lancianti anatemi
contro il dispotismo degli uomini, avessero scritto in assiomi il testo
della legge. Essi volevano esercitare il potere pubblico come avevano
imparato dalle loro guide come esso fosse stato esercitato negli stati
liberi. Essi credevano che tutto dovesse cedere di fronte alla volontà
collettiva, e che tutte le restrizioni sui diritti individuali sarebbero
stati ampiamente compensati dalla partecipazione al potere sociale.
Sappiamo tutti, Signori, quale è stato il risultato. Libere istituzioni,
poggiantesi sopra la conoscenza dello spirito del tempo, avrebbero
potuto sopravvivere. L’edificio ristorato degli antichi collassò,
nonostante molti sforzi e molti atti eroici che richiamano la nostra
ammirazione. Il fatto è che il potere sociale feriva in tutti i sensi
l’indipendenza individuale, senza distruggerne il bisogno. La nazione
non trovava che una ideale condivisione di una sovranità astratta
valesse i sacrifici richiesti per essa. Essa era vanamenta assicurata,
sull’autorità di Rousseau, che le leggi della libertà erano mille volte
più austere del giogo dei tiranni. Essa non aveva desiderio di queste
austere leggi, e credeva qualche volta che il giogo dei tiranni sarebbe
stato preferibile ad esse. L’esperienza è venuta a disilluderla. Essa ha
visto che il potere arbitrario degli uomini era persino peggio della
peggiore delle leggi. Ma anche le leggi dovevano avere i loro limiti.
Se ho avuto successo, Signori, nel farvi condividere la convinzione che,
secondo la mia opinione, questi fatti devono produrre, riconoscerete
con me la verità dei seguenti principi. L’indipendenza individuale è il
primo bisogno dei moderni: di conseguenza non si deve mai richiederne da
loro il sacrificio per stabilire la libertà politica. Ne segue che
nessuna delle numerose e troppo elogiate istituzioni, che nelle antiche
repubbliche limitavano la libertà individuale, sia più ammissibile nei
tempi moderni.
Voi potreste, in primo luogo pensare, Signori, che è superfluo stabilire
questa verità. Diversi governi dei nostri giorni non sembrano per nulla
inclinati ad imitare le repubbliche dell’antichità. Tuttavia, per
quanto poco possano apprezzare le istituzioni repubblicane, ci sono
certi usi repubblicani per i quali essi sentono una certa affinità. É
allarmante che esse siano precisamente quelle che permettono loro di
bandire, esiliare, o spogliare. Ricordo che nel 1802 essi infilarono,
nella legge sui tribunali speciali, un articolo che introduceva in
Francia l’ostracismo greco; e Dio sa quanti eloquenti oratori, in modo
da ottenre l’approvazione di questo articolo, ci parlavano della libertà
di Atene e di tutti i sacrifici che gli individui devono fare per
preservare questa libertà ! Allo stesso modo, in tempi molto più
recenti, quando autorità timorose tentarono, con timida mano, di
dirigere le elezioni a loro vantaggio, un giornale che non si può
sospettare di repubblicanismo propose di risuscitare la censura romana
per eliminare tutti i candidati pericolosi.
Io non penso, pertanto, che mi stia impegnando in una discussione
inutile se, per sostenere la mia affermazione, pronuncio alcune parole
circa queste due istituzioni troppo celebrate. L’ostracismo in Atene si
poggiava sul presupposto che la società avesse l’autorità completa sui
suoi membri. Su questo presupposto poteva essere giustificato; e in un
piccolo stato, dove l’influenza del singolo individuo, forte nel suo
credito, i suoi clienti, la sua gloria, spesso bilanciava il potere
della massa, l’ostracismo poteva apparire utile. Ma tra noi gli
individui hanno diritti che la società deve rispettare, e gli interessi
individuali sono, come ho già osservato, talmente persi nella
moltitudine di eguali o superiori influenze, che ogni oppressione
motivata dal bisogno di diminuire questa influenza è inutile e di
conseguenza ingiusta. Nessuno ha il diritto di esiliare un cittadino, se
egli non è condannato da un regolare tribunale, in accordo ad una legge
formale a cui consegue la pena dell’esilio per l’azione della quale è
colpevole. Nessuno ha il diritto di strappare il cittadino dal suo
Paese, il proprietario dalle sue proprietà, il mercante dal suo
commercio, l’anziano uomo dal suo abituale stile di vita. Ogni esilio
politico è un abuso politico. Ogni esilio pronunciato da una assemblea
per supposte ragioni di sicurezza pubblica è un crimine che l’assemblea
stessa commette contro la sicurezza pubblica, la quale risiede solamente
nel rispetto per le leggi, nell’osservanza delle forme, e nel
mantenimento delle salvaguardie.
La censura romana supponeva, come l’ostracismo, un potere discrezionale.
In una repubblica dove tutti i cittadini, tenuti dalla povertà in una
estrema semplicità di costumi, abitavano nella stessa città e non
esercitavano alcuna professione che distraesse la loro attenzione dagli
affari dello Stato, e trovandosi così costantemente spettatori e giudici
dell’uso del potere pubblico, la censura poteva da una parte avere
maggiore influenza e, dall’altra, il potere arbitrario dei censori era
limitato da una sorta di vigilanza morale esercitata su di loro. Ma non
appena l’estensione della repubblica, la complicazione delle relazioni
sociali e l’affinamento della civiltà privarono questa istituzione di
ciò che allo stesso tempo serviva da fondazione e da limite, la censura
degenerò persino a Roma. Non era dunque la censura che aveva creato i
buoni costumi; era la semplicità dei costumi che costituiva la potenza e
l’efficacia della censura.
In Francia, un’istituzione arbitraria come la censura sarebbe al tempo
stesso inefficace ed intollerabile. Nello stato attuale della società, i
costumi sono formati da sfumature sottili, fluttuanti, impercettibili
che sarebbero distorte in mille modi se si tentasse di definirli con
maggiore precisione. Soltanto l’opinione pubblica può comprenderle; essa
soltanto può giudicarle, perché ha la medesima natura. Si solleverebbe
contro ogni autorità positiva che volesse conferirle maggior precisione.
Se il governo di un popolo moderno volesse, come i censori di Roma,
censurare un cittadino arbitrariamente, l’intera nazione protesterebbe
contro questo arresto rifiutandosi di ratificare le decisioni
dell’autorità.
Quel che ho detto a proposito del ripristino della censura nei tempi
moderni si applica anche a molti altri aspetti della organizzazione
sociale, in relazione ai quali l’antichità viene citata ancor più
frequentemente e con maggiore enfasi. Come per esempio, l’educazione;
che cosa non abbiamo sentito sul bisogno di permettere al governo di
prendere possesso delle nuove generazioni per formarle a suo piacimento,
e quante citazioni erudite sono impiegate a sostegno di questa teoria! I
persiani, gli egiziani, la Gallia, la Grecia e l’Italia vengono di
volta in volta messe di fronte a noi. Eppure, Signori, noi non siamo né
persiani sottomessi ad un despota, né egiziani soggiogati dai preti, né
galli che potevano essere sacrificati dai loro druidi, né, infine, greci
o romani, la cui partecipazione all’autorità sociale li consolava del
loro asservimento privato. Noi siamo uomini moderni, che vogliono ognuno
godere dei propri diritti, ognuno sviluppare le proprie facoltà come
preferiamo, senza nuocere a nessuno; vegliare sullo sviluppo di queste
facoltà nei bambini che la natura affida al nostro affetto, tanto più
illuminato quanto più è vivido; e necessitiamo che le autorità ci diano
solamente gli strumenti generali di istruzione che possono offrire, così
come i viaggiatori accettano da loro le principali strade senza che sia
detto loro quale strada prendere.
Anche la religione è esposta a questi ricordi di ere passate. Alcuni
intrepidi difensori dell’unità di dottrina citano le leggi degli antichi
contro gli dei stranieri, e sostengono i diritti della Chiesa Cattolica
con l’esempio degli ateniesi, che uccisero Socrate per aver minato il
politeismo, e con quello di Augusto, che voleva che il popolo rimanesse
fedele al culto dei padri; con il risultato, poco dopo, che i primi
cristiani furono gettati ai leoni. Diffidiamo, dunque, Signori, di
questa ammirazione per certe antiche memorie. Poiché viviamo nei tempi
moderni, io voglio la libertà appropriata ai tempi moderni; e poiché
viviamo sotto monarchie, io supplico umilmente queste monarchie di non
mutuare dalle antiche repubbliche gli strumenti per opprimerci.
La libertà individuale, lo ripeto, è la vera libertà moderna. La libertà
politica è la sua garanza, conseguentemente la libertà politica è
indispensabile. Ma chiedere alle persone dei nostri giorni di
sacrificare, come quelle del passato, l’interezza della loro libertà
individuale alla libertà politica, è il mezzo più sicuro per staccare
loro dalla prima e, una volta che questo risultato è stato raggiunto,
sarebbe solamente troppo facile privarli della seconda.
Come vedete, Signori, le mie osservazioni non tendono affatto a sminuire
il valore della libertà politica. Dai fatti che vi ho sottoposto non
traggo affatto le conseguenze che altri ne traggono. Dal fatto che gli
antichi erano liberi, e che noi non possiamo più essere liberi come
loro, essi concludono che noi siamo destinato ad essere schiavi. Essi
vorrebbero ricostituire il nuovo stato sociale con un piccolo numero di
elementi i quali, essi dicono, sono i soli approppriati alla situazione
del mondo odierno. Questi elementi sono i pregiudizi per spaventare gli
uomini, l’egoismo per corromperli, la frivolezza per stordirli, i
piaceri volgari per degradarli, il dispotismo per guidarli; e,
indispensabile, conoscenza positiva e scienze esatte per servire il
dispotismo più abilmente. Sarebbe strano indubbiamente se questo fosse
il risultato di quaranta secoli durante i quali l’umanità ha acquisito
migliori mezzi morali e fisici: non posso crederlo. Io ricavo da queste
differenze che ci distinguono dall’antichità conclusioni totalmente
differenti. Non è la sicurezza che dobbiamo indebolire; è il godimento
dei diritti che dobbiamo estendere. Non è la libertà politica quello a
cui voglio rinunciare; è la libertà civile che io pretendo, assieme ad
altre forme di libertà politica. I governi, non più di quanto ne
avessero ieri, non hanno il diritto di arrogarsi un potere illegittimo.
Ma i governi che scaturiscono da una fonte legittima hanno ancora minor
diritto di prima di esercitare sugli individui una supremazia
arbitraria. Possediamo ancora oggi i diritti che abbiamo sempre avuto,
gli eterni diritti di approvare le leggi, di deliberare sui nostri
interessi, di essere parte integrante del corpo sociale di cui siamo
membri. Ma i governi hanno nuovi doveri; il progresso della civiltà, i
mutamenti operati dai secoli richiedono dall’autorità maggior rispetto
per le abitudini, per gli affetti, per l’indipendenza degli individui.
Essi deve gestire tutti questi argomenti con una mano più prudente e
leggera.
Questo riserbo dell’autorità, che è uno dei suoi più rigidi doveri,
eguamente rappresenta i suoi interessi ben intesi; poiché, se la libertà
che si adatta ai moderni è differente da quella che era propria degli
antichi, il dispotismo che era possibile presso gli antichi non è più
possibile presso i moderni. Giacché siamo spesso meno assorbiti dalla
libertà politica di quanto potevano esserlo loro e che in circostanze
ordinarie siamo meno appassionati per essa, può conseguirne che
trascuriamo, talvolta troppo e sempre erroneamente, le garanzie che essa
ci assicura. Ma al tempo stesso, dato che siamo molto più assorbiti
degli antichi dalla libertà individuale, noi la difenderemo, se è
attaccata, con maggior abilità e persistenza; e noi per difenderla
abbiamo mezzi che gli antichi non avevano.
Il commercio rende l’azione del potere arbitrario sulla nostra esistenza
più oppressiva che passato, perché, dato che le nostre speculazioni
sono più varie l’arbitrio deve moltiplicarsi per raggiungerle. Ma il
commercio rende anche l’azione del potere arbitrario più facile da
eludere, perché cambia la natura della proprietà, che diviene, in virtù
di questo cambiamento, quasi impossibile da afferrare.
Il commercio conferisce alla proprietà una qualità nuova, la
circolazione. Senza circolazione la proprietà è meramente un usufrutto;
l’autorità politica può sempre influire sull’usufrutto, perché può
prevenirne il godimento; ma la circolazione pone un ostacolo invisibile e
invincibile alle azioni del potere sociale.
Gli effetti del commercio si estendono ancor oltre: non soltanto esso
emancipa gli individui, ma, creando il credito, pone l’autorità stessa
in una posizione di dipendenza. Il denaro, dice uno scrittore francese:
«è l’arma più pericolosa del dispotismo; ma è al tempo stesso il suo più
potente freno; il credito è soggetto all’opinione; la forza è inutile;
il denaro si nasconde o fugge; tutte le operazioni dello Stato sono
sospese». Il credito non aveva la stessa influenza presso gli antichi; i
loro governi erano più forti degli individui; mentre nella nostra epoca
gli individuo sono più forti dei poteri politici. La ricchezza è una
forza che è più disponibile in ogni circostanza, più applicabile ad ogni
interesse e quindi più reale e meglio obbedita. Il potere minccia; la
ricchezza ricompensa: si sfugge al potere ingannandolo; per ottenere i
favori della ricchezza bisogna servirla: quest’ultima è quindi destinata
a vincere.
Come conseguenza, l’esistenza individuale è meno assorbita
dall’esistenza politica. Gli individui trasferiscono lontano i loro
tesori; portano con se tutti i godimenti della vita privata. Il
commercio ha ravvicinato le nazioni, ha dato loro costumi e abitudini
quasi identici; i Capi di Stato possono essere nemici: i popoli sono
compatrioti. Il potere, dunque, si rassegni: abbiamo bisogno della
libertà e l’avremo. Ma poiché la libertà che ci occorre è differente da
quella degli antichi, essa necessita un’organizzazione differente da
quella degli antichi, necessita un’organizzazione differente da quella
adatta alla libertà antica. In quest’ultima, quanto più un uomo dedicava
tempo ed energie all’esercizio dei suoi diritti politici, tanto più si
credeva libero; d’altronde, nel tipo di libertà che si addice a noi,
quanto più l’esercizio dei diritti politici ci lascerà tempo per i
nostri interessi privati, tanto più la libertà ci sarà preziosa.
Di qui, Signori, scaturisce la necessità del sistema rappresentativo. Il
sistema rappresentativo non è altro che una organizzazione mediante la
quale una nazione incarica pochi individui di fare ciò che non può o non
vuol fare da sé. I poveri curano direttamente i proprio affari: i
ricchi assumono degli amministratori. È la storia delle nazioni antiche e
moderne. Il sistema rappresentativo è una procura data a un certo
numero di uomini dalla massa del popolo che vuole i propri interessi
siano difesi e che nondimeno non ha il tempo di difenderli da sé. Ma, a
meno che siano idioti, i ricchi che assumoni degli amministratori
esaminano con attenzione e severità se gli intendenti compiono il loro
dovere, se sono negligenti o corruttibili o incapaci; e per giudicare
della gestione di questi amministratori, i proprietari, se sono
prudenti, si tengono al corrente degli affari di cui affidano loro
l’amministrazione. Parimenti, i popoli che, al fine di godere della
libertà che si adatta a loro, ricorrono al sistema rappresentativo,
debbono esercitare una sorveglianza attiva e costante sui loro
rappresentanti, e riservarsi per sé stessi, in tempi che non siano
separati da intervalli troppo lunghi, il diritto di allontanarli se
hanno tradito la loro fiducia e di revocare i poteri di cui avessero
abusato.
Dal fatto che la libertà moderna differisca dalla libertà antica deriva
infatti che essa è anche minacciata da un pericolo di natura differente.
Il pericolo della libertà antica era che gli uomini, attenti soltanto
ad assicurarsi la propria partecipazione al potere sociale, dessero
troppo poco valore ai diritti e ai godimenti individuali.
Il pericolo della libertà moderna è che, assorbiti nel godimento della
nostra indipendenza privata e nel perseguimento dei nostri interessi
particolari, noi possiamo rinunciare troppo facilmente alla
partecipazione nel potere politico. I depositari dell’autorità sono fin
troppo pronti ad incorraggiarci a questo. Sono tanto disposti a
risparmiarci tutta una serie di problemi, eccetto quelli di obbedire e
di pagare ! Essi ci diranno: qual è, in fondo, lo scopo dei vostri
sforzi, il motivo dei vostri lavori, l’oggetto di tutte le vostre
speranze ? Non è la felicità ? Ebbene, lasciate fare noi e noi ve la
daremo. No, Signori, non lasciamo fare a loro. Per quanto commovente sia
un così tenero interessamento, chiediamo alle autorità di restare nei
loro confini. Si limitino ad essere giusti. Noi stessi assumeremo la
responsabilità di essere felici.
Potremmo esser resi felici da distrazioni, se queste distrazioni fossero
senza garanzie ? E dove troveremmo queste garanzie, senza la libertà
politica ? Rinunciarvi, Signori, sarebbe una follia come quella di chi,
poiché abita al primo piano, non si curasse se la casa stessa fosse
costruita sulla sabbia.
D’altronde, Signori, è dunque vero che la felicità, di qualsiasi tipo,
sia il fine unico del genere umano ? Se fosse così, il nostro corso
sarebbe assai ristretto, e la nostro destinazione ben poco elevata. Non
c’è nessuno di noi che, se volesse degradarsi, restringere le sua
facoltà morali, abbassare i suoi desideri, abdicare all’attività, alla
gloria, alle emozioni generose e profonde, non potrebbe sminuirsi ed
essere felice. No, Signori, chiamo a testimone la parte migliore della
nostra natura, questa nobile inquietudine che ci perseguita e ci
tormenta, questo desiderio di estendere la nostra conoscenza e di
sviluppare le nostre facoltà. Non è alla sola felicità, ma al
perfezionamento che il nostro destino ci chiama; e la libertà politica è
il più potente, efficace mezzo di perfezionamento che il cielo ci abbia
dato.
La libertà politica, sottomettendo a tutti i cittadini, senza eccezione,
la cura e lo studio dei loro interessi più sacri, allarga il loro
spirito, nobilita i loro pensieri e stabilisce tra loro una sorta di
eguaglianza intellettuale che forma la gloria e la potenza di un popolo.
Così, vedete come una nazione cresce con la prima istituzione che le
restituisce l’esercizio regolare della libertà politica. Vedete i nostri
concittadini di tutte le classi, di tutte le professioni, emergere
dalla sfera dei loro lavori abituali e della loro industria privata,
trovarsi improvvisamente al livello delle importanti funzioni che le
costituzioni affidano loro, scegliere con discernimento, resistere con
energia, affrontare le minacce, nobilmente opporsi alla seduzione.
Vedete un puro, profondo e sincero patriottismo trionfare nelle nostre
città e ravvivare perfino i nostri più piccoli villaggi, permeare le
nostre officine, rianimare le nostre campagne, penetrare i giusti ed
onesti spiriti del coltivatore utile e del commerciante industrioso con
il senso dei nostri diritti e della necessità di garanzie; essi, educati
nella storia dei mali che hanno subito, e non meno consci dei rimedi
che questi mali esigono, abbracciano con un solo sguardo la Francia
intera e, conferendo una gratitudine nazionale, ricompensano con i loro
suffragi, dopo trenta anni, la fedeltà ai principi incarnati dalla
persona del più illustre difensore della libertà[6. Il signore de
Lafayette, nominato deputato per la Sarthe].
Dunque, Signori, lungi dal rinunciare ad alcuna delle due specie di
libertà che vi ho descriitto, è necessario, come ho dimostrato, imparare
a combinarle insieme entrambe. Le istituzioni, dice il famoso autore
della Histoire des républiques du moyen àge[7. Simonde de Sismondi],
debbono compiere il destino del genere umano; esse possono meglio
raggiungere il loro scopo se innalzano il maggior numero possibile di
cittadini alla più alta posizione morale.
L’opera del legislatore non è completa quando ha soltanto portato pace
al popolo. Anche quando il popolo è soddisfatto, resta ancora molto da
fare. Le istituzioni devono realizzare l’educazione morale dei
cittadini. Rispettando i loro diritti individuali, assicurando la loro
indipendenza, evitando di turbare il loro lavoro, esse debbono comunque
consacrare la loro influenza sugli affari pubblici, chiamarli a
concorrere con i loro voti all’esercizio del potere, garantire loro un
diritto di controllo e di supervisione esprimendo le loro opinioni; e,
formandoli in tal modo mediante la pratica di queste elevate funzioni,
dare loro sia il desiderio e la facoltà di adempierle.
Benjamin Constant, 1819